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Il paese di Signa è posto sulla riva destra dell’Arno. Nei tempi passati ha sempre cercato di attribuire a se potere, fama ed onori a discapito dei dintorni circostanti. Questo proverbio veniva citato nei luoghi vicini, posti sulla riva sinistra dell'Arno.
Spesso, quando si vuole per un motivo o per un altro stare a mangiare da soli c'è qualcosa da nascondere.
Giorno di fiera a Lastra a Signa, oltre che festa dell'Assunta.
ché non è impresa da pigliare a gabbo - discriver fondo a tutto l’universo - né da lingua che chiami mamma o babbo.
Il termine “babbo” è diffuso, nella medesima accezione, anche in Romagna, Umbria, Marche, Sardegna e nel Lazio settentrionale.
Si racconta di una pia donna che durante le quarant'ore, stava nella sua chiesa inginocchiata pregando.
Ad un certo punto si sentì toccare il culo.
Voltatasi di scatto esclamò la frase: "Icché c'entra i' culo con le quarantore?!??
Formica, da formicare= pizzicare
Chi detiene il comando ha il potere agire a modo proprio imponendo agli altri la propria volontà
Riferito in particolare a preti, frati e monache che non avendo famiglia propria amano solo se stessi.
Di solito usata in senso negativo, si riferisce a oggetti o persone che non appartengono a nessuna categoria.
- Bischero è anche il nome della chiavetta degli strumenti a corda, ma pure, come ricorda Benigni...... l' organo sessuale maschile. Per un fiorentino, la parola può assumere diversi significati , che vanno dall' offesa al complimento. Dipende dal contesto in cui è pronunciata, e dal "modo"
Adattarsi alla situazione
Come andrà l'avventura, spesso si vede dall'inizio
Per villano è inteso una persona maleducata, sgarbata. il proverbio significa che certi gesti, anche se fatti per scherzo, sono sgarbati
In senso figurato, di solito riferito alle attività economiche
Capovolgendone il significato è usata in senso ironico verso donne dall’atteggiamento serioso ma ritenute in realtà leggere.
Rimpiatta=nasconde- Inserirsi in una discussione con argomento scomodo, e poi defilarsi
Si dice di persona di pessimo umore
Prendendo spunto dall’attività del pescatore che deve sempre prestare attenzione per turare su i pesci nel momento in cui abboccano, non si ottiene nulla senza fatica. Per esteso, chi non si dà da fare non realizza nulla.
La prima attestazione dell'espressione bastian contrario risale al 28 febbraio 1819, in un intervento di Ludovico di Breme apparso sul numero 52 del giornale «Il Conciliatore» con il significativo titolo "Ai Signori associati al Conciliatore il compilatore Bastian-Contrario". Nel 1918 Alfredo Panzini, nella terza edizione del suo Dizionario moderno, cita l'espressione popolare e dialettale Bastiàn contrari come «detto di persona che contraddice per sistema»; e, a partire dalla settima edizione (del 1935), integra: «Bastiàn cuntrari: pop. detto nelle terre subalpine di persona che contraddice per sistema. Fu in fatti un Bastiano Contrario, malfattore e morto impiccato, il quale solamente in virtù del cognome diede origine al motto». La concomitanza dell'uso dello pseudonimo-personaggio da parte di Ludovico di Breme e l'aggiunta di Panzini spingono a collocare la nascita dell'espressione nell'Italia nord-occidentale, in particolar modo in Piemonte: lo suggeriscono anche i vocabolari del piemontese che registrano in modo pressoché costante l'espressione fin dagli inizi dell'Ottocento a fronte del silenzio riscontrato negli altri dizionari dialettali e di lingua; e lo confermano anche alcuni esempi dell'uso di bastiano citati da Bruno Migliorini nella sua monografia Dal nome proprio al nome comune (Genève, Olschki, 1927, p. 230). Ma bastian contrario (o bastiancontrario) si è diffuso nell'italiano in modo così ampio da aver perso qualunque connotazione locale e da essere anzi sottoposto a vari tentativi di appropriazione regionale (ad esempio è inserito in certe raccolte lessicali toscane e fiorentine) che hanno finito per rendere ancora più difficile la ricostruzione esatta della sua origine. Sull'identificazione del personaggio si sono fatte poi infinite ipotesi: c'è chi ha proposto il brigante sabaudo Bastian Contrario, che su incarico del Duca Carlo Emanuele di Savoia avrebbe condotto dal 1671 un'azione di disturbo nelle zone di confine con la Repubblica di Genova (un'ipotesi che valorizza l'origine piemontese); altri invece, all'interno del processo di "fiorentinizzazione" dell'espressione, pensano al pittore fiorentino Bastiano da San Gallo, a causa del suo peculiare carattere...»
Fonte e per approfondimenti: Accademia della Crusca
Una probabile spiegazione della locuzione per il rotto della cuffia è riportata nel Vocabolario della lingua italiana curato da N. Zingarelli (edizione 2002), sotto la terza accezione della voce cuffia, dove si legge:
«Nell'armatura antica, parte della cotta di maglia indossata sotto l'elmo o la cervelliera. Copricapo di cuoio o pelle imbottita indossato sotto la celata. Uscire per il rotto della cuffia (fig.) cavarsela alla meglio, a malapena (prob. perché nelle giostre medievali i colpi assestati sulla cuffia erano ritenuti validi).
Esiste un'altra interpretazione che conserva comunque il significato di 'passare in qualche maniera', 'passare di straforo', illustrata da Ottavio Lurati nel suo Dizionario dei modi di dire (Milano, Garzanti, 2001) che fa riferimento ad un altro senso della parola cuffia: 'parte della cinta di una città', quindi passare per il rotto della cuffia coinciderebbe a 'passare attraverso una piccola breccia aperta nelle mura'. Questa spiegazione sembra avvalorata da un verso delle Satire dell'Ariosto in cui viene utilizzata la stessa locuzione con la sostituzione però della parola cuffia con la parola muro:
Uno asino fu già, ch'ogni osso e nervo
Mostrava, di magrezza; e entrò, pe 'l rotto
Del muro, ove di grano era uno acervo;
E tanto ne mangiò che l'èpa, sotto,
Si fece più d'una gran botte grossa (Satire 1. 247-51).
Fonte:Accademia della Crusca
- Non si fa nulla per nulla in cambio
Sul significato dell'espressione avere la coda di paglia non sembrano esserci dubbi e tutti i principali repertori lessicografici e di modi di dire ne danno pressappoco la stessa definizione: chi ha la coda di paglia sa di aver combinato qualcosa, non ha la coscienza tranquilla e, di conseguenza, è sempre sospettoso per timore di essere scoperto; la versione tradizionale (e un po' in disuso) del più recente e "mediatico" avere uno scheletro nell'armadio.
Meno lineare appare invece la ricostruzione dell'origine dell'espressione. La spiegazione tradizionale e largamente conosciuta si fonda su quella data da Costantino Arlia (in Voci e maniere di lingua viva, Milano, P. Carrara, 1895), tratta da Fanfani e ripresa poi in molti dizionari etimologici, che faceva risalire l'espressione alla favola in cui una volpe che aveva perso la coda, per la vergogna, se ne sarebbe messa una posticcia di paglia. Molto più convincente la ricostruzione proposta da Ottavio Lurati (Dizionario dei modi di dire, Milano, Garzanti, 2001) che fa riferimento alla pratica medievale di umiliare gli sconfitti o i condannati attaccando loro una coda di paglia con la quale dovevano sfilare per la città a rischio che qualcuno gliela incendiasse come gesto di ulteriore scherno. La coda naturalmente rappresenta il simbolo del degrado dallo status di persona a quello di animale. Questa origine sembra dar conto dei diversi e contemporanei stati d'animo che caratterizzano chi ha la coda di paglia: la consapevolezza del proprio errore, la vergogna e la diffidenza verso gli altri che possono rendere pubblica la colpa, aggravando il senso di umiliazione. Lurati cita un episodio specifico avvenuto nel Trecento e raccontato da Galvano Fiamma nella sua cronaca intitolata Manipulus Florum: i prigionieri pavesi, sconfitti dai milanesi, sarebbero stati cacciati dalla città con una coda di paglia attaccata in fondo alla schiena.
Fonte: Accademia della Crusca
- Ogni situazione, anche la più rosea ha sepre un lato negativo
Basti dire che gli esempi d'autore forniti dai dizionari storici non superano complessivamente il numero di sei. Si va dall'isolata attestazione nella commedia La serva nobile (1660) del fiorentino Giovanni Andrea Moniglia (1624-1700), data dalla V impress. del Vocabolario della Crusca, alle cinque - nell'ordine: di Moniglia, Giovanni De Gamerra, Collodi, Idelfonso Nieri, Bacchelli - registrate nel Grande Dizionario della Lingua italiana fondato dal Battaglia (GDLI); una sesta testimonianza, che risulta poi la più precoce essendo quella offerta, a due riprese, dall'Eneide travestita (1633) dell'umbro Giovan Battista Lalli (1572-1637), si ricava dal Tommaseo-Bellini (s. v. Giacobbe, 4)".
Si citano poi le attestazioni ancora anteriori nella commedia dialettale La Pace (1561) del veneziano Marin Negro, individuata da Massimo Bellina, e nel Baldus (1517 / 1518) di Teofilo Folengo, segnalata da Ottavio Lurati a proposito della quale "inutile dire che il maccheronico folenghiano garantisce appieno la vitalità popolare dell'espressione".
La Castellani Pollidori stessa ne aggiunge un'altra che "precede di ben 83 anni la coppia di attestazioni dell'Eneide travestita del Lalli. Devo la piccola scoperta a un accenno che mi ha colpito nello scorrere il lemma Giacomo del Dizionario etimologico-pratico-dimostrativo del linguaggio fiorentino di Venturino Camaiti (Firenze, Vallecchi, 1934): «Far Giacomo Giacomo, o Diego Diego, o Diego e Giacomo: Ripiegarsi sulle ginocchia per fiacchezza. Far Giacomo Giacomo è modo usato anche anticamente, e lo trovo in una nota dell'edizione del 1550 del Morgante, canto XXIV v. 125»".[...]
Fonte e per approfondimenti: Accademia della Crusca
Fonte e perapprofondimenti: Accademia della Crusca
Come già anticipa la glossa di Lapucci, il verbo stroppiare è la variante popolare di storpiare. Tutti i vocabolari dell'italiano contemporaneo, infatti, mettono a lemma la voce storpiare e segnalano stroppiare come variante popolare con metàtesi, che è il fenomeno fonetico per cui uno o più suoni possono cambiare posizione all'interno di una parola (particolarmente frequente in presenza di una laterale /l/ o di una vibrante /r/, come ad esempio frumento > furmento ecc.).
Per quanto riguarda l'etimologia del verbo storpiare, gli studiosi non sono concordi: il DELI mette in collegamento il verbo con un latino volgare *stroppeāre, adattamento fonetico dal greco strophéō (con il significato di 'storcere, slogare'); Nocentini, nel suo Etimologico, fa derivare il verbo dal latino volgare *distŭrpiāre, variante popolare di DETŬRPĀRE 'sfigurare', a sua volta derivato di TŬRPIS 'brutto, vergognoso, indecente'
Fonte:Accademia della Crusca
Questo modo di dire, ormai in uso nel linguaggio calcistico quando una squadra che sta perdendo riesce a fare almeno un gol, nasce a Firenze.
Alle origini del Calcio Storico Fiorentino, il punteggio delle partite era segnato issando delle bandiere su dei pennoni, posti ai margini del campo di sabbia, in Piazza di Santa Croce.
Per ogni caccia (gol) era issata su per il pennone una bandiera quadrata del colore del Quartiere che l’aveva realizzata, mentre, per ogni mezza caccia, la bandiera colorata issata era triangolare.
Se nessuna caccia o mezza caccia era segnata, il pennone rimaneva spoglio, senza alcuna bandiera.
Una vera umiliazione per il Quartiere che subiva tale sconfitta.
Quindi ogni calciante, seppur nella sconfitta, metteva tutto il proprio sforzo per segnare almeno una caccia e quindi issare una bandiera del colore del proprio Quartiere su quel pennone e così l’onore era salvo.
L’unica segnatura era chiamata, per l’appunto: il gol della bandiera.
Le origini risalgono almeno al II secolo d. C., in particolare all'età adrianea (117-138 d. C.), a cui appartiene una delle più ricche raccolte di proverbi greci, quella attribuita a Diogeniano o meglio – vista l'incertezza dell'attribuzione – allo Pseudo-Diogeniano. Si tratta di una silloge rielaborata, che raccoglie 787 proverbi greci antichi, non sempre collocabili con precisione nel tempo in quanto dotati di commenti talvolta troppo scarni per consentire una ricostruzione attendibile del quadro delle fonti. In questo caso la glossa (ἐπὶτῶν ἀναισθήτων: "per chi non sente", ovvero "per gli insensibili, per gli ottusi, per gli stupidi") non offre informazioni se non da un punto di vista strettamente contenutistico. Essa si legge accanto al proverbio διὰτοῦτοίχου λαλεῖν (Diogeniano, IV 31), equivalente al latino Per parietem loqui (ma esiste anche Parieti loqueris, per cui cfr. Walther 1963-1969, IX, p. 13) e all'italiano Tu parli a quel muro quivi. Quest'ultima è la forma attestata nel terzo libro del Flos Italicae linguae di Agnolo Monosini, dove l'espressione fa parte delle Paroemiae Graecis atque Etruscis communes e dove, per la prima volta, viene ricostruita l'intera catena di calchi che dal greco conduce all'italiano moderno, passando per il Medioevo latino.
Fonte: Accademia dalla Crusca
L'espressione avverbiale a babbo morto trae origine da una particolare forma di prestito praticata anticamente dagli usurai nei confronti di giovani che, trovandosi in disastrose condizioni economiche, avrebbero restituito la somma di denaro ricevuta solamente dopo la morte del padre, cioè dopo la riscossione dell'eredità familiare.
Si sottintende quindi che il debito in questione venga saldato in tempi molto lunghi.
Proprio per questo motivo, il significato si è esteso scherzosamente a indicare, come si afferma nel GRADIT, "acquisti e simili con lunghe e improbabili dilazioni di pagamento", o, addirittura più ironicamente, come si legge sul Dizionario dei modi di dire della lingua italiana di Lapucci, "dare un prestito a fondo perduto".
Attualmente, nel linguaggio, ci si riferisce a qualsiasi pagamento, conto o debito che preveda attese molto lunghe per la riscossione, la quale potrebbe anche non avvenire mai.
Tra le costruzioni verbali registrate si segnalano: pagare a babbo morto, prendere soldi a babbo morto, restituire a babbo morto, dare soldi a babbo morto.
Fonte:Accademia della Crusca
La grande popolarità di ma anche no è da attribuire probabilmente alla particolare intonazione sfacciata e disinvolta con cui viene pronunciata fin dalle sue origini in contesti comici televisivi. L'ipotesi più convincente è che sia stata utilizzata per la prima volta dal trio della Gialappa's Band già negli anni '90, nei commenti fuoricampo in trasmissioni televisive come le serie Mai dire Banzai e Mai dire Gol. Tuttavia, il vero successo dell'espressione, diventata tormentone negli ultimi anni, è dovuto al rilancio di due comici: Marcello Macchia, in arte Maccio Capatonda, e Maurizio Crozza.
In un breve filmato, parodia dei trailer cinematografici, Maccio Capatonda è il protagonista di un ipotetico film intitolato appunto Anche no. Il video andò in onda fra il 2005 e il 2006, durante la trasmissione televisiva Mai dire Lunedì condotta proprio dalla Gialappa's Band e ha avuto successivamente una grande popolarità in rete. Nel filmato, Maccio Capatonda è un presunto uomo politico che, incalzato da una voce fuoricampo che elenca le enormi aspettative riposte in lui, reagisce con un irriverente ma anche no:
Fonte: Accademia della Crusca
Riuscire nell'intento con guadagno , ma anche ammalarsi (beccarsi un'influenza)
cogliere in flagrante, ma anche imbrogliare se detto fra imbroglioni della vittima
uomo che da molto tempo non ha rapporti con una donna
Se a Firenze e dintorni vi chiedono la granata è solo per pulire il pavimento.<br>L'origine di questa parola è legata allo composizione della scopa fatta di mazzetti di saggina, steli ricavati dalla pannocchia granata della pianta (appunto la saggina)
ironico in riferimento a situazione tutt'altro che positiva o situazione che si presume difficile e/o fastidiosa
Gratis, senza spesa. Probabilmente deriva dalla sigla A.U.F. (ad uso fabbrica) che veniva scritta sui mattoni della fabbrica del Duomo di Firenze e che per questo non pagavano la tassa.
esortazione all'attenzione, ma anche a togliersi dai piedi
affermazione palesemente esagerata o inverosimile
uomo di una certa età che non è sposato
scapolo, con valore spregiativo