Marcello Bertini
Antologia della critica
Cristina Acidini, Andrea Baldinotti, Mario Bucci, Rinaldo Frank Burattin, Dino Carlesi, Giovanna Maria Carli, Maria Luisa Cason, Umberto Cecchi, Giovanni Faccenda, Ugo Fortini, Lodovico Gierut, Delio Granchi, Pier Francesco Listri, Giovanni Lombardi, Mario Mazzocchi, Fabrizio Moretti, Marco Moretti, Elvio Natali, Armando Nocentini, Nicola Nuti, Sergio Pacciani, Marco Palamidessi, Tommaso Paloscia, Antonio Paolucci, Dino Pasquali, Aldo Rettori, Paola Scuffi, Umberto Sereni, Faustina Tori, Maurizio Vanni, Marcello Vannucci
Basterebbero certi scorci dipinti nella luce mattinale di un autunno che rispecchia la malinconia dell’esistenza, per realizzare quale toccante sentimento abbia ispirato ed accompagnato Bertini, in tempi recenti, al cavalletto.
Poco importa se tale impegno si è consumato en plein air o nel suo studio: contano, al contrario, i risultati, che assapori sempre più serrati entro un recinto severo.
Dopo aver albergato tra Barga e Castelvecchio, nei luoghi che furono del suo Pascoli, ora Bertini raggiunge Fiesole, offrendosi all’incanto che già ebbe ad ammaliare molti illustri viaggiatori.
Sul finire dell’Ottocento, Böcklin - solo per citare un luminoso esempio - scelse come sua ultima dimora Villa Bellagio a San Domenico; de Chirico ne raffigurò successivamente, in alcuni fondali, la sagoma metafisica del colle; Xavier e Antonio Bueno vi trascorsero un volontario esilio fino all’ultimo dei loro giorni. Giovane liceale, io stesso, qui, incontrai Primo Conti, e tanti altri indimenticabili ospiti, fra i quali Mario Tobino, che viveva in via Bandini, all’ombra della Vecchia Fiesolana: la strada più bella del mondo.
So, dunque, cosa è, cosa può rappresentare Fiesole agli occhi di un uomo e di un pittore sensibile come Bertini.
Tale ansia è profondamente vissuta da Bertini, convinto e sofferto pittore del ‘bello’. L’interno di uno studio pittorico fa sempre pensare a un luogo di riflessione estetica quando non addirittura di macerazione e assillo e questo è il caso che s’attaglia allo studio del maestro Bertini.
Nulla traspare di più, in questa complessa e riuscita opera, del tormento estetico dell’artista.
-Forse per questo Bertini non si è lasciato mai travolgere dall’astrazione allettante dell’arbitrio e dalla forzatura a tutti i costi!
L’artista è sempre se stesso, “dipinge sempre se stesso” (scriveva il Croce) e realizza armonia e misura in rapporto al proprio io: anzi, le cose esistono se l’artista le fa sue, se le coordina mentalmente, se va a scovarsele in un’interiorità che precede la stessa realtà in nome della memoria creativa.Gli “interni” di Bertini:
opere figurative ma che trascendono il reale per stemperarsi in liquidità coloristica di mirabile efficacia lirica, quasi l’urgenza poetica premesse per svincolare l’immagine dalla sua realistica identità.
La bravura coloristica di Bertini è indubbia e prende spunto dall’osservazione del vero come pretesto, per poi sciacquare l’impronta realistica nelle sfere emozionali e psichiche, dove si sedimenta il vissuto delle cose.
I fondi in cui Bertini mette in scena la piéce che ha come protagonista uno o più vasi di fiori, accompagnati da libri, vasi vuoti o con pennelli, teiere, brocche, frutti, piatti, bottiglie, oggetti tratti da un quotidiano dimesso, sono trattati con una varietà cromatica sorprendente con lo scopo di far risaltare nella sua regalità l’epifania floreale come specchio del Sé.
I suoi sono paesaggi che ancora oggi possiamo scoprire nella nostra Toscana e la sua pittura, il suo vasto catalogo sul genere, ci offre una mappa per giungere agli incanti poco distanti da noi.
Rifuggendo dal didascalismo di maniera e avendo escluso per scelta poetica la rappresentazione della figura umana – egli vuole il paesaggio protagonista – Bertini è capace di infondere alle proprie creazioni una sorta di rispetto reverenziale.
Preferisco il racconto che si sofferma agli angoli delle strade e cerca di aprire cancelli serrati su misteriosi giardini dove il colore gioca con le ombre e i rami delle piante scrivono sulla superficie di cieli d'un azzurro intenso, storie brevi piene di nostalgia. Ricche di tradizioni.
I racconti di gente antica, con nell'animo un qualche ultimo lampo di ironia etrusca.
I cancelli di Bertini sono strade sul lungo sentiero dell'esistere, nessuno può dire quando si apriranno per permettere ancora di riprendere il cammino, né quando si chiuderanno dietro di noi, per segnalare che il viaggio è finito 'fra quattro zolle di sole e il rubino del vino/ fra un cespo di viole e te amor mio vicino', come scriveva quello sciagurato meraviglioso poeta che fu Omar Khayyam, uno dei poco capaci di mettere in poesia la sintesi fra colori, sapori, luci e amori.
Certo: i cancelli di Bertini, quelli chiusi all'angolo della strada, quasi nascosti al passo della gente, con le sbarre accecate da lenzuoli di latta che impediscono di guardare oltre.
Perché quell'oltre è solo nella fantasia del pittore.
E' nel destino.
E ci si potrebbero scrivere storie senza fine su questi cancelli ciechi che formano caleidoscopi di colori con il verde degli alberi, il bruno dei rami, il rosso di un tetto nascosto, l'azzurro del cielo mimetizzato fra nuvole basse e cariche di promesse.
Bertini e gli scenari pascoliani
Quando un pittore di grande levatura e raffinata sensibilità
come Marcello Bertini si accosta agli scenari che portano il segno di un sommo
poeta come Giovanni Pascoli, si verifica un corto circuito lirico di notevole
complessità.
Se infatti l’amenità paesistica dei luoghi, la storicizzata
pienezza dei volumi architettonici, i ritmi pacati della vita a contatto con la
natura sono – pur con i cambiamenti del tempo – generati da quelli da cui il
Pascoli trasse così profonda e sorgiva ispirazione, per Marcello Bertini si
tratta di far proprie e reinventare in termini pittorici atmosfere e vedute già
recanti l’impronta della creazione poetica, luoghi i cui nomi da cent’anni e
più risuonano, carichi di potere evocativo, nei versi pascoliani.
Quei versi
resero familiari a generazioni di studenti – anche se forse questo accade
sempre meno – la toponomastica della Valle del Serchio, con i suoi percorsi
fluviali e la sua vegetazione impregnata d’umido, i suoi borghi petrosi ed
arroccati, che le liriche del Pascoli traevano dalla feriale realtà di un
vissuto individuale per proiettarli nella dimensione collettiva della poesia.
Bertini a questo incontro, l’incontro con l’ambiente modellato dallo sguardo
del poeta, si presenta con la forza vitale della sua pittura e prima ancora del
suo disegno.
Le suggestioni visive dei quadri di Bertini ci faranno tornare a letture che magari avevamo accantonato, presi da interessi diversi, per scoprire che in quei versi del Pascoli in Toscana affondano le nostre radici culturali, così vive da alimentare tutt’oggi una fioritura come quella che Bertini ci regala.
CRISTINA ACIDINI - Sovrintendente per il Polo Museale
Fiorentino
Da oltre quarantanni l’opera di Bertini, ci conduce in quei luoghi senza tempo dove la Realta’ fermata e sublimata, attende alla Poesia…
“REALTA E POESIA”, binomio classico della pittura del Vero. Ma la Realtà cosa sarebbe in pittura, senza il soccorso della Poesia?
L’Epifania del Vero può essere fermata e sublimata solo da quel processo intellettuale - Metalogico - che chiamiamo Poesia.
Perché la Poesia ferma il tempo, sospende l’inesausto processo che conduce noi e le cose nel flusso della vita. Vedere con occhi limpidi, cuore caldo e mente serena, e dividere con noi il privilegio della visione secondo Poesia.
Questo è il destino dell’Arte, questo è il mestiere del pittore, quando il pittore è, come Marcello Bertini,” Poeta del Vero” .
ANTONIO PAOLUCCI - Sovrintendente ai Musei Vaticani
Data ultima modifica:
11 dicembre 2018